Scioglimento del consiglio per infiltrazioni mafiose
SCIOGLIMENTO DEL CONSIGLIO PER INFILTRAZIONI MAFIOSE, INCANDIDABILI GLI AMMINISTRATORI INCAPACI DI CONTRASTARE LE INGERENZE
Nel caso di scioglimento del consiglio comunale o provinciale per fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso, ai fini della sanzione di incandidabilità degli amministratori non è richiesto il reato di partecipazione ad associazione mafiosa o concorso esterno nella stessa, ma è sufficiente una situazione di cattiva gestione della cosa pubblica ascrivibile a una condotta anche soltanto omissiva, ove la stessa abbia costituito la causa o la concausa dello scioglimento dell'organo consiliare.
Lo ha affermato la Cassazione, sezione I, con l’ordinanza n. 29919/2024.
Il fatto
Nel caso in esame, dopo lo scioglimento di un consiglio comunale disposto con un Dpr del 2018 era insorto un contenzioso in esito al quale la Corte d’appello di Catanzaro (sentenza n. 27/2023) aveva accolto la domanda di dichiarazione di incandidabilità formulata dal ministero dell’Interno per tutti i funzionari amministrativi dell’ente risultati collusi, ma aveva respinto analoga domanda per l’ex sindaco e per altri due amministratori locali sulla base del fatto che, ai fini dell’applicazione di misure interdittive, non sono rilevanti i meri rapporti di parentela tra gli amministratori incensurati e gli esponenti della malavita locale.
A seguito di ricorso proposto dal ministero, la sentenza di cui sopra è stata annullata dalla Cassazione, che ha fornito un’interpretazione restrittiva dei presupposti occorrenti per irrogare la sanzione dell’incandidabilità a carico degli amministratori alla guida di enti coinvolti con fenomeni di infiltrazione mafiosa.
Dinanzi alla Suprema corte il ministero ha posto in evidenza la cattiva gestione del settore della raccolta dei rifiuti e delle opere pubbliche, ove in seno all’amministrazione locale il condizionamento mafioso si è concretizzato nella manipolazione della scelta relativa alle ditte da incaricare per il disimpegno dei rispettivi contratti.
L’ingerenza nei settori di cui sopra era stata consentita dallo sfruttamento di diversi legami di parentela tra esponenti delle consorterie e gli amministratori dell’ente, fatto questo che aveva comportato il favoreggiamento delle imprese direttamente o indirettamente riconducibili agli amministratori stessi, in violazione degli obblighi di imparzialità, trasparenza e legalità dell’azione amministrativa.
A fronte di ciò, il ministero aveva concluso che, ai fini dell’incandidabilità degli amministratori ex art.143, comma 11, del Tuel, sono da ritenersi sufficienti «collegamenti» o «forme di condizionamento» degli amministratori con la criminalità organizzata, senza necessità che la condotta degli stessi integri gli estremi del reato di partecipazione ad associazione mafiosa o concorso esterno nella stessa.
Il presupposto di mala gestio
La sezione ha pienamente aderito a questa tesi e ha affermato che per la dichiarazione di incandidabilità è bastevole la prova di una cattiva gestione della cosa pubblica, aperta alle ingerenze e alle pressioni delle associazioni criminali operanti sul territorio.
Come si legge nell’ordinanza in commento, ai fini di tale dichiarazione “l'elemento soggettivo dell'amministratore consiste anche solo nel non essere riuscito a contrastare efficacemente le ingerenze e pressioni delle organizzazioni criminali operanti nel territorio, mentre l'elemento oggettivo richiede la verifica di una condotta inefficiente, disattenta e opaca che si sia riflessa sulla cattiva gestione della cosa pubblica”.
Di contro, nella sentenza impugnata la Corte d’appello ha compiuto un'indagine volta all'individuazione di condotte che deponessero per una partecipazione dell'ex sindaco e degli ex amministratori al sodalizio criminoso in rapporto alla gestione del servizio rifiuti e degli appalti pubblici, confondendo il giudizio di accertamento della responsabilità penale con quello di verifica delle condizioni di incandidabilità.
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