News

Scioglimento del consiglio comunale per infiltrazioni mafiose

SCIOGLIMENTO DEL CONSIGLIO PER INFILTRAZIONI MAFIOSE, INCANDIDABILI GLI AMMINISTRATORI INCAPACI DI CONTRASTARE LE INGERENZE
di Michele Nico
 

Nel caso di scioglimento del consiglio comunale o provinciale per fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso, ai fini della sanzione di incandidabilità degli amministratori non è richiesto il reato di partecipazione ad associazione mafiosa o concorso esterno nella stessa, ma è sufficiente una situazione di cattiva gestione della cosa pubblica ascrivibile a una condotta anche soltanto omissiva, ove la stessa abbia costituito la causa o la concausa dello scioglimento dell'organo consiliare.

Lo ha affermato la Cassazione, sezione I, con l’ordinanza n. 29919/2024.

Il fatto

Nel caso in esame, dopo lo scioglimento di un consiglio comunale disposto con un Dpr del 2018 era insorto un contenzioso in esito al quale la Corte d’appello di Catanzaro (sentenza n. 27/2023) aveva accolto la domanda di dichiarazione di incandidabilità formulata dal ministero dell’Interno per tutti i funzionari amministrativi dell’ente risultati collusi, ma aveva respinto analoga domanda per l’ex sindaco e per altri due amministratori locali sulla base del fatto che, ai fini dell’applicazione di misure interdittive, non sono rilevanti i meri rapporti di parentela tra gli amministratori incensurati e gli esponenti della malavita locale.

A seguito di ricorso proposto dal ministero, la sentenza di cui sopra è stata annullata dalla Cassazione, che ha fornito un’interpretazione restrittiva dei presupposti occorrenti per irrogare la sanzione dell’incandidabilità a carico degli amministratori alla guida di enti coinvolti con fenomeni di infiltrazione mafiosa.

Dinanzi alla Suprema corte il ministero ha posto in evidenza la cattiva gestione del settore della raccolta dei rifiuti e delle opere pubbliche, ove in seno all’amministrazione locale il condizionamento mafioso si è concretizzato nella manipolazione della scelta relativa alle ditte da incaricare per il disimpegno dei rispettivi contratti.

L’ingerenza nei settori di cui sopra era stata consentita dallo sfruttamento di diversi legami di parentela tra esponenti delle consorterie e gli amministratori dell’ente, fatto questo che aveva comportato il favoreggiamento delle imprese direttamente o indirettamente riconducibili agli amministratori stessi, in violazione degli obblighi di imparzialità, trasparenza e legalità dell’azione amministrativa.

A fronte di ciò, il ministero aveva concluso che, ai fini dell’incandidabilità degli amministratori ex art.143, comma 11, del Tuel, sono da ritenersi sufficienti «collegamenti» o «forme di condizionamento» degli amministratori con la criminalità organizzata, senza necessità che la condotta degli stessi integri gli estremi del reato di partecipazione ad associazione mafiosa o concorso esterno nella stessa.

Il presupposto di mala gestio

La sezione ha pienamente aderito a questa tesi e ha affermato che per la dichiarazione di incandidabilità è bastevole la prova di una cattiva gestione della cosa pubblica, aperta alle ingerenze e alle pressioni delle associazioni criminali operanti sul territorio.

Come si legge nell’ordinanza in commento, ai fini di tale dichiarazione “l'elemento soggettivo dell'amministratore consiste anche solo nel non essere riuscito a contrastare efficacemente le ingerenze e pressioni delle organizzazioni criminali operanti nel territorio, mentre l'elemento oggettivo richiede la verifica di una condotta inefficiente, disattenta e opaca che si sia riflessa sulla cattiva gestione della cosa pubblica”.

Di contro, nella sentenza impugnata la Corte d’appello ha compiuto un'indagine volta all'individuazione di condotte che deponessero per una partecipazione dell'ex sindaco e degli ex amministratori al sodalizio criminoso in rapporto alla gestione del servizio rifiuti e degli appalti pubblici, confondendo il giudizio di accertamento della responsabilità penale con quello di verifica delle condizioni di incandidabilità.

dirittodeservizipubblici.it

Progressioni verticali e il requisito dei tre anni

Le progressioni verticali e il requisito dei tre anni


Una recente sentenza del Tar Sicilia che riporto in estratto di seguito, permette due ragionamenti sulle progressioni verticali.

Il primo è che bisogna prestare molta attenzione a quello che viene scritto nell’avviso.

Il secondo è che dai Tribunali Amministrativi viene sempre data una lettura ampia ai requisiti e alla professionalità ottenuta e maturata dai partecipanti.

Ecco la sintesi della sentenza n. 649/2025 del TAR Sicilia-Palermo sezione IV.

Nelle procedure per progressione verticale il requisito del triennio di attività lavorativa pregressa (nell’area immediatamente inferiore), previsto dal bando, non necessariamente è da ricondursi agli anni immediatamente precedenti a quello della procedura; questo quando, ad esempio, l’avviso di selezione formuli la prescrizione in questo modo “anzianità di almeno tre anni alla data di scadenza della domanda di partecipazione, maturata anche con contratto di lavoro a tempo determinato”.

Infatti, se l’intenzione dell’amministrazione, come quella del Legislatore, fosse stata quella di richiedere una anzianità maturata nella qualifica immediatamente precedente negli ultimi tre anni, presumibilmente sarebbe stata richiesta espressamente così come è stato previsto per l’altro requisito, riconducibile alla valutazione della performance.

Le progressioni di carriera, avvengono tenuto conto delle capacità culturali e professionali e dell’esperienza maturata e secondo principi di selettività, in funzione della qualità dell’attività svolta e dei risultati conseguiti; questo, tuttavia, non implica che la valutazione dell’esperienza maturata non possa essere suffragata dal complesso delle attività svolte nel tempo.

Il requisito si matura a prescindere dalla tipologia contrattuale; pertanto, può essere idonea (oltre al rapporto di lavoro subordinato indeterminato o determinato) anche l’attività svolta come LSU, LPU, assegnazione di mansioni superiori.

Riguardo, poi, alla valutazione positiva della performance la normativa si esprime in termini generici con riferimento a ciascuno dei tre anni precedenti a quello in cui si svolge la procedura e non richiede che questi siano svolti nella qualifica immediatamente inferiore a quella di destinazione.

gianlucabertagna.it

Discrezionalità e motivazione nell'anticorruzione

Discrezionalità e motivazione nel sistema preventivo dell’anticorruzione[1]

Antonino Ripepi e Stefano Maria Vilasi

1. Premessa.

Già in altre sedi (sia consentito il rinvio ad A. Ripepi, Dirigenza pubblica e fiducia: un’analisi integrata tra diritto e management, Egea, 2025) si è avuto modo di osservare che entrambi i versanti dell’anticorruzione, quello preventivo-amministrativo e quello repressivo-penale, sono legati dal concetto cui questi, pur diversamente interpretandolo, si contrappongono: la corruzione.

Non sorprende, dunque, la necessità di definire preventivamente quest’ultima, come in un gioco degli specchi, in quanto “ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone”[4], pur nella consapevolezza che la corruzione sia un fenomeno difficile da studiare[5].

Infatti, mentre la maggior parte delle trattazioni in materia è incentrata sulla misurazione del rischio corruttivo[6], si ritiene sommessamente che sia più importante inquadrare preventivamente il medesimo in una prospettiva multidisciplinare e integrata, che possa essere adeguata alla complessità dell’oggetto di studio.

Nello studio della corruzione, che è possibile definire quale “abuso da parte di un soggetto del potere a lui affidato al fine di ottenere vantaggi privati”[7], si contrappongono la prospettiva economica e l’approccio culturale.

Il primo si concentra sulla razionalità delle azioni individuali: la tangente viene percepita solo se le aspettative di beneficio superano i costi attesi[8]. Al di là della cost-benefit analysis, l’analisi economica concepisce il fenomeno corruttivo in termini di tradimento del rapporto principale-agente, poiché il funzionario pubblico dovrebbe operare per conto dello Stato e, invece, si fa distogliere e deviare dalle influenze operate da terzi.

Inoltre, i fattori abilitanti della corruzione possono essere espressi attraverso una formula matematica[9], secondo cui C = M + D – T – A: il livello di corruzione (C) si associa alla presenza di posizioni monopolistiche di rendita (M) e all’esercizio di poteri discrezionali (D), ed è inversamente collegato al grado di trasparenza (T) e di accountability (A) dell’agente[10].

In chiave culturale, si evidenzia come la corruzione dilaghi in quei contesti nei quali meno elevati sono gli standard morali, il senso civico, lo spirito di corpo e il senso dello Stato dei funzionari; si tratterebbe, dunque, di un problema di integrità morale e, ancor prima, di educazione. E’ riconducibile a questa impostazione anche la corrente “istituzionalista”, secondo la quale il fenomeno si amplifica quando le strutture politiche ed economiche restano inerti o lo agevolano implicitamente[11], così alimentando una sub-cultura della corruzione.

Entrambe le impostazioni appaiono in grado di spiegare l’evoluzione storica del fenomeno, conosciuto già nell’antichità classica[12] e ben noto sin dai primordi dell’Unità d’Italia.

Il trasformismo che connotò la Sinistra Storica di Agostino Depretis è stato, infatti, accostato all’odierna idea di corruzione, in quanto consisteva nel cambio di schieramento politico in cambio di vantaggi della più varia natura[13]; inoltre, l’eccessiva influenza della politica sull’amministrazione assunse, spesso, tratti patologici[14].

La malamministrazione continuò a serpeggiare durante il regime autoritario[15] e non si dissolse in epoca repubblicana[16], nonostante la presenza di “competenze professionali tecniche molto numerose e dotate di poteri incisivi” nonché la sussistenza di un corpo e di una funzione ispettiva autorevole nelle amministrazioni statali[17]. Il declino della qualità dell’amministrazione è dovuto, secondo alcune voci dottrinali, anche all’allentamento della presa dal centro sull’azione delle periferie, parallelamente al rafforzamento del principio di autonomia territoriale, che transitò attraverso l’istituzione delle Regioni nel 1970, la progressiva devoluzione delle funzioni amministrative e la riforma del Titolo V nel 2001[18].

Nonostante la presenza di documenti ufficiali che stigmatizzavano l’inefficienza e la corruzione delle pubbliche amministrazioni, quali il “Rapporto Giannini” del 1979 e la “Relazione Cassese” nel 1993, la situazione proruppe in un crescendo rossiniano che sfociò nel famoso discorso pronunciato da Bettino Craxi alla Camera dei Deputati il 3 luglio 1992 e nell’imponente reazione rappresentata da “Mani Pulite”, la cui eco risuona ancor oggi nei libri di storia[19] e nella memoria dei cittadini.

2. La definizione e l’impostazione generale dell’attuale sistema normativo anticorruzione.

Se la corruzione è definibile nei termini che precedono, l’anticorruzione si risolve in quell’insieme di politiche, modelli e regole che “si rivolgono a definire non tanto una strategia di contrasto criminale, quanto piuttosto le precondizioni di buona amministrazione e di integrità che rendono … più difficile l’emergere di patologie”[20].

Descrivere correttamente il fenomeno è imprescindibile ai fini della presente analisi, in quanto l’evoluzione generale del dibattito pubblico rischia, soprattutto negli ultimi anni, di portare il discorso sulla prevenzione della corruzione nel campo gravitazionale della criminalizzazione delle condotte corruttive, con improprie derive penalistiche, ciò che probabilmente è da riferirsi ai traumatici eventi storici prima rammentati[21].

Alla luce di un tale grado di pervasività del fenomeno, come suggerito dagli esaminati fattori di condizionamento storico, culturale ed economico e a prescindere da qualsiasi approfondimento in punto di misurazione quali-quantitativa (inutile in questa sede e per la quale si rinvia alla sterminata letteratura in materia[22]), interessa piuttosto evidenziare come sia stata definitivamente acquisita, sul piano delle politiche e della cultura dell’anticorruzione[23], la necessità di un approccio non solo repressivo-penale ed ex post, ma anche preventivo-amministrativo ed ex ante nella lotta al fenomeno corruttivo[24].

Tale circostanza ha determinato, in primo luogo, una fioritura degli studi aventi a oggetto l’etica del dipendente pubblico[25] e la riscoperta del relativo ancoraggio costituzionale (sebbene implicito, secondo alcuni[26]) negli artt. 54, 97 e 98 Cost. Infatti, “se è indubbio che il rapporto d’impiego determini il sorgere di posizioni giuridiche verso l’amministrazione d’appartenenza, occorre riconoscere che alle stesse si giustappongono – senza confondersi – i doveri o gli obblighi di disciplina e onore previsti dalla Costituzione in coloro cui sono affidate funzioni pubbliche senz’altra precisazione (art. 54, comma 2, Cost.), tra i quali emergono per rilievo i pubblici impiegati (art. 98 Cost.)”[27].

L’accentuazione della rilevanza dell’integrità morale del dipendente, come si dirà in sede di analisi dei codici di comportamento, rappresenta, in sé, un dato certamente positivo[28]; la corruzione, infatti, oltre a cagionare danni macroeconomici rilevanti, compromette la qualità delle istituzioni[29], l’onestà dei funzionari[30] e, in definitiva, la buona amministrazione.

Tuttavia, in parallelo, l’esigenza di moralizzazione dei pubblici dipendenti sembra aver generato un approccio generale alla tematica molto severo, con ogni probabilità derivante dalle dimensioni del fenomeno e ben espresso dalle seguenti parole: “More needs to be done to effectively convey to the public at large the message that no impunity is tolerated in the fight against corruption; such a message must be based on concrete and determined actions”[31]. Il punto di emersione di tale approccio è costituito, già sul piano lessicale, dalla denominazione “spazzacorrotti” con cui è volgarmente nota la L. n. 3/2019; non è mancato chi abbia (giustamente) criticato tale scelta, connotata da eccessiva enfasi punitiva, sfociante in un vero e proprio populismo penale, in disparte l’illusione insita nell’idea di voler “spazzare via”, una volta per tutte, il fenomeno corruttivo.

Questo humus culturale, a volte non totalmente scevro da intenti pedagogici[32], ha generato un sistema normativo estremamente articolato: la L. n. 190/2012 ha istituito un sistema di pianificazione, elemento ormai imprescindibile nell’ottica programmatoria che pervade le Pubbliche Amministrazioni[33], in cui il Piano Nazionale Anticorruzione (PNA) funge da atto di indirizzo per l’adozione dei Piani Triennali di Prevenzione della Corruzione e della Trasparenza (oggi riassorbiti nella sottosezione “Anticorruzione” del PIAO, su cui si tornerà) da parte delle singole Amministrazioni; alla legge generale ha fatto seguito uno stuolo di decreti attuativi, in materia di accesso civico semplice (D. Lgs. n. 33/2013), inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le PP.AA. (D. Lgs. n. 39/2013), codice di comportamento dei pubblici dipendenti (d.P.R. n. 62/2013, recentemente novellato con d.P.R. n. 81/2023), accesso civico generalizzato (D. Lgs. n. 97/2016), modifiche normative in tema di whistleblowing (dapprima L. n. 179/2017 e, da ultimo, D. Lgs. n. 24/2023).

In questo quadro sistematico, la prassi applicativa ha rivelato alcune tendenze abbastanza evidenti:

    sospetto nei confronti della discrezionalità rimessa ai dipendenti pubblici[34], soprattutto nel settore dei contratti pubblici, ove sembra significativa la soppressione, già dal 2014, della precedente Autorità di Vigilanza (AVCP) per attribuire all’ANAC rilevanti poteri di regolamentazione, vigilanza, ispettivi e sanzionatori[35], unitamente a una legittimazione a ricorrere del tutto peculiare (art. 211, c. 1-bis, D. Lgs. n. 50/2016) e alla riduzione degli spazi applicativi dell’affidamento diretto (art. 36 D. Lgs. n. 50/2016) dovuta, al tempo stesso, a una certa logica di sfiducia nei confronti degli operatori delle stazioni appaltanti e all’eccessiva enfatizzazione del valore concorrenza[36], oggi decisamente ridimensionata dall’impianto complessivo del D. Lgs. n. 36/2023, che la interpreta quale mezzo e non quale fine;
    valorizzazione (o aggravio?) della figura del Responsabile della Prevenzione della Corruzione e della Trasparenza (RPCT) attraverso l’attribuzione di compiti sempre più numerosi (redazione e monitoraggio del PTPCT, a pena di incappare in sanzioni derivanti dal rigido regime di responsabilità di cui agli artt. 12 e 14 L. n. 190/2012; controllo sull’adempimento da parte dell’amministrazione degli obblighi di pubblicazione previsti dalla normativa vigente, quantitativamente sempre più rilevanti; ricezione dei ricorsi gerarchici impropri in materia di accesso civico; cura dei rapporti con l’organo di indirizzo politico e con gli OIV), di difficilissima gestione in determinate PP.AA. (si pensi ai piccoli Comuni, ove il RPCT coincide “di norma”, ex art. 1, c. 7, L. n. 190/2012, con il Segretario generale, già impegnato da una enorme massa di adempimenti e coinvolto in tutti i principali processi che, in ottica manageriale, riguardano l’Ente);
    predisposizione di un apposito apparato sanzionatorio amministrativo in caso di violazioni, la cui applicazione è rimessa all’Autorità Indipendente.

Da ciò discende un quadro generale, confermato dall’esperienza concreta di chi vive quotidianamente l’esperienza del lavoro nelle PP.AA., non del tutto confortante:

    all’atto del confronto della suddetta normativa con l’esperienza pratica, ne è derivato un “sistema fortemente burocratico, che richiede una messe enorme di adempimenti e raccolta di dati, poco capace effettivamente, però, di prevenire la corruzione”[37];
    conseguente disaffezione da parte dei responsabili della prevenzione della corruzione, il cui pensiero principale “non è quello di porre in essere azioni di contrasto alla corruzione, ma il rispetto della scadenza per aggiornare il piano triennale, (…) se il dato richiesto tra i 228 imposti dalla griglia sugli adempimenti della trasparenza sia stato scritto per tempo, se la pubblicazione tra le decine richieste dall’articolo 29 del d.lgs. 50/2016 sia saltata”[38];
    insofferenza da parte degli organi di indirizzo politico, i quali, soprattutto nei piccoli Enti, percepiscono il sistema dell’anticorruzione quale “inutile consumo di carta”, che sottrae tempo ai dipendenti e non consente loro di conseguire tempestivamente altri obiettivi di amministrazione attiva;
    indifferenza da parte dei pubblici impiegati, i quali, spesso non comprendendo a fondo la ratio insita nel sistema preventivo della corruzione, ignorano radicalmente l’esistenza di un PTPCT o di un codice di comportamento o, semplicemente, non lo applicano, percependolo come un quid estrinseco ed eteroimposto, comunque non essenziale per svolgere le ripetitive mansioni del quotidiano;
    consolidamento, in un’ottica più generale, della “burocrazia difensiva”, consistente nell’atteggiamento del RPCT, del dirigente o, comunque, del decisore pubblico che procede “con i piedi di piombo, facendo prevalere il proprio interesse personale a schivare le sanzioni e così sacrificando l’interesse pubblico, che invece, oggi quanto mai, richiederebbe decisioni tempestive e coraggiose, da assumere sempre più spesso in contesti difficili e di estrema incertezza”[39], e derivante dalle condizioni di incertezza in cui si svolge il lavoro quotidiano, l’entità del danno che il funzionario può essere chiamato a risarcire, l’imprevedibilità del modo in cui la sua condotta può essere valutata dal giudice, l’assenza di polizze assicurative[40].

Si tratta di problemi sotto gli occhi di tutti e, non a caso, analizzati dalla dottrina richiamata, ma che, evidentemente, si trascinano da anni e non sono stati ancora risolti.

Questo, probabilmente, deriva dalla recente intuizione secondo cui il presupposto dell’anticorruzione è l’integrità morale, ma essa, configurando una “predisposizione interiore (,) … non può essere prodotta da nessuna di queste misure ‘etiche’, ma … rimanda direttamente allo standard morale di una società e … può essere costituita soltanto tramite l’educazione, ma non tramite ‘misure’ top down e dirigistiche”[41].

Per tali ragioni, già in altra sede (A. Ripepi, Dirigenza pubblica e fiducia cit.) è stata proposta una generale rilettura del sistema amministrativo dell’anticorruzione fondata sulla valorizzazione della discrezionalità, non più intesa quale fattore di rischio, in quanto tale da monitorare e mortificare.

3. La discrezionalità amministrativa in generale.

La discrezionalità amministrativa, come noto, è una modalità di espressione del potere pubblicistico che presuppone il conferimento (rectius il trasferimento) da parte della legge alla Pubblica Amministrazione di uno spazio valutativo e decisionale, connotato dalla precipua funzione di adattare le previsioni astratte individuate, appunto, dalla legge alla realtà fattuale, nell’ottica della necessità di tutelare gli interessi dei privati coinvolti nel procedimento amministrativo e con l’obiettivo primario di curare concretamente un determinato interesse pubblico, realizzando il massimo soddisfacimento dell’interesse primario con il minor sacrificio possibile degli interessi secondari.

L’analisi del carattere discrezionale dell’attività della Pubblica amministrazione non può prescindere da un’importante osservazione preliminare, volta a sottolineare come la riflessione sulla discrezionalità sia servita soprattutto a distinguere quest’ultima dall’arbitrio, indebolendo il privilegio in forza del quale la scelta discrezionale si rivelerebbe profondamente inidonea ad essere assoggettata al sindacato giurisdizionale.

Il dibattito dottrinale che ha contribuito a questo processo di chiarificazione è costituito da molteplici voci. Tuttavia, spetta a Vittorio Ottaviano[42] il merito di aver dimostrato non solo che la discrezionalità non può dirsi di per sé sottratta al sindacato giurisdizionale (tramite l’eccesso di potere, infatti, viene a sindacarsi, sia pure in maniera indiretta, proprio l’uso scorretto della discrezionalità), ma altresì che, tra il sindacato di chi esercita attraverso l’eccesso di potere e quello che si esercita in sede di riesame del merito, non esiste differenza sostanziale, presentando entrambi il medesimo oggetto, vale a dire il concretarsi del potere discrezionale nell’atto amministrativo.

Essi, come sopra accennato, si distinguono solamente sotto il profilo modale, attenendo il primo sindacato al processo logico tramite il quale si è concretizzata la scelta discrezionale, il secondo ad una piena ripetizione della comparazione degli interessi rilevanti nella fattispecie.

Il vivace disaccordo dottrinale che si è incentrato sull’argomento è stato infatti progressivamente rivolto a sottrarre la discrezionalità all’ambito (interno) originariamente proprio dell’autorità amministrativa ed affidato al suo esclusivo dominio per meglio consentirle di conseguire i propri interessi, non necessariamente coincidenti con quelli dei cittadini.[43]

Accantonata la tesi secondo la quale la discrezionalità è da intendersi libertà di scelta tra più comportamenti leciti per il soddisfacimento del pubblico interesse, la più moderna dottrina ritiene che tale potere consista nella ponderazione comparativa di più interessi secondari, laddove per interessi secondari devono intendersi quelli pubblici, collettivi e privati, mentre per interesse primario solo e sempre l’interesse pubblico.

Si ha dunque potere discrezionale quando il Legislatore concede all’Amministrazione una limitata libertà di scelta o di valutazione in ordine all’esercizio del potere medesimo, sicché ogni manifestazione di discrezionalità risulta in parte sindacabile ed in parte insindacabile, a seconda, da un lato, del grado (ritenuto accettabile) di sacrificio del bene giuridico protetto dalla norma attributiva del potere, e, dall’altro lato, della misura in cui si ritiene di dover tutelare l’esistenza di una libertà di scelta[44].

Dall’inclusione del potere discrezionale fra il settore delle attività regolamentate dalla legge e quello dei comportamenti le cui esplicazioni risultano libere da ogni predisposizione normativa deriva il rischio di far rientrare il potere medesimo in quello vincolato, oppure, all’opposto, in quello arbitrario[45].

Dalle considerazioni che precedono, discende il carattere ibrido della discrezionalità, causato dalla commistione, in essa, di vincolo e di libertà, che ne rappresentano gli essenziali presupposti.

L’elemento del vincolo deriva dal carattere funzionale del potere, ovvero dal suo essere munus rispetto alla funzione, intesa, quest’ultima, come collegamento del potere con interessi non propri del soggetto agente; il vincolo è pertanto rappresentato dall’obbligo di esercitare il potere in modo da soddisfare la funzione.         

         La componente libera attiene, invece, alla ricerca dei mezzi con i quali soddisfare, nei singoli casi concreti, gli interessi per la cui tutela il potere è stato conferito: alla lacunosità delle predisposizioni normative relative ai comportamenti da seguire corrisponde, infatti, in capo all’agente, l’esigenza di (liberamente) ricercare altre disposizioni regolative degli interessi affidati alla sua cura.

Sulla parte libera, caratterizzante il potere amministrativo, occorre in particolare soffermarsi: infatti, mentre ai fini della qualificazione di una fattispecie come potere non rileva l’estensione della parte libera, ossia la quantità di libertà concessa[46], sorgono differenze fra i diversi tipi di potere laddove si analizzi la qualità della libertà, quale si desume dalle regole che compongono la disciplina positiva del singolo tipo di potere. Quest’ultima parte dal presupposto che il potere stesso possa disporre autoritariamente della sfera giuridica altrui: ciò implica la necessaria imposizione di vincoli che condizionino dall’interno la ricerca del precetto e che concernono il modo in cui la scelta attinente alla parte libera del potere amministrativo possa essere compiuta.

         Viene in rilievo il principio cardine dal quale è retta la struttura della regolamentazione positiva dell’atto amministrativo, vale a dire il principio di legalità, consacrato a livello costituzionale dall’art. 97, primo comma, Cost., il quale rappresenta l’espressione del principio democratico[47] caratterizzante l’intero ordinamento repubblicano: nel sistema del diritto amministrativo, invero, il fondamento ed il limite della peculiare condizione di privilegio riconosciuta alla PA come autorità devono essere rinvenuti nella legge, in funzione dello scopo pubblico da essa indicato.[48]       

         In base al principio di legalità, la Pubblica amministrazione deve agire osservando i contenuti ed i confini stabiliti dalla legge ed operare nel modo migliore possibile in base ai criteri di adeguatezza, convenienza e opportunità.[49]

         Secondo tale ricostruzione, la discrezionalità consta di due momenti: uno cognitivo-valutativo, che importa l’acquisizione e la valutazione di tutti i fatti e gli interessi rilevanti, e l’altro volitivo, che consiste nella scelta della soluzione ritenuta più opportuna e conveniente per il miglior perseguimento dell’interesse pubblico.

         In quanto espressione di potestà pubblicistica, l’attività discrezionale amministrativa si muove entro i limiti, positivi e negativi, che ne impediscono il trasmodare in mero arbitrio.

         Sotto il primo profilo, la pubblica amministrazione è tenuta al rispetto del principio di finalizzazione dell’agere amministrativo, da intendere come necessaria tensione dell’attività pubblica verso il perseguimento del pubblico interesse e del principio del minimo mezzo, che impone alla Pubblica amministrazione di arrecare il minor pregiudizio possibile alle posizioni soggettive che interferiscono con l’interesse primario.    

         La discrezionalità è sì una libertà, e precisamente libertà di apprezzamento delle opportunità di soluzioni possibili[50] che dà luogo ad una manifestazione di volontà, ma è una libertà limitata positivamente poiché, comunque, è disciplinata da leggi ed è finalizzata proprio alla cura dell’interesse pubblico[51]; tuttavia, al di là di questi limiti, la Pubblica amministrazione è assolutamente libera.

         Occorre, altresì, evidenziare che altra fondamentale distinzione dell’azione amministrativa è quella che separa l’attività discrezionale da quella vincolata; infatti quest’ultima, è caratterizzata dalla circostanza che tutti gli elementi da acquisire e valutare, ai fini della decisione della p.a., sono già rigidamente prefigurati dalla legge.

         Da ciò consegue che, in tali casi, l’autorità amministrativa è tenuta a svolgere una semplice verifica tra quanto previsto dalla norma e quanto verificatosi nella realtà.

Pertanto, quando la P.A. adotta un provvedimento vincolato, ha l’obbligo di intervenire con un atto dovuto nell’an e vincolato nel contenuto, altresì, deriva l’obbligo di motivazione, che la giurisprudenza ha elaborato come canone in termine di dovere per ogni provvedimento amministrativo, ad opera dell’art.3 della legge sul procedimento amministrativo L.241 del 7/8/90 (l’assenza di motivazione denominata anche carenza di motivazione dà luogo al vizio di violazione di legge).[52]

La motivazione dovrebbe esprimere <<sostanzialmente>> l’interesse pubblico che ha guidato l’azione dell’amministrazione e non limitarsi a indicare <<formalmente>> norme e fatti[53].

4. Il problema (o l’opportunità) della discrezionalità nel sistema dell’anticorruzione[54]

Tanto premesso, si è già visto come, in base alle formalizzazioni matematiche del fenomeno corruttivo, la discrezionalità compaia tra i fattori che lo alimentano, in quanto consente al decisore pubblico di fruire di una possibilità di scelta tra più soluzioni consentite nella quale potrebbero allignare deviazioni dal perseguimento dell’interesse pubblico. Di conseguenza, all’atto della mappatura dei processi si consiglia di porre particolare attenzione ai settori in cui sussistono tali possibilità di manovra[55], con particolare riferimento al settore della contrattualistica pubblica[56].

Tali acquisizioni sono frutto di una precisa evoluzione storica. Le vicende di Tangentopoli dimostrarono l’inadeguatezza dell’assetto normativo allora vigente e suggerirono l’irrigidimento del sistema, con preferenza per l’azzeramento della discrezionalità dei funzionari pubblici e il ricorso alla gara per esigenze di trasparenza, unitamente alla diffusione del criterio di aggiudicazione del prezzo più basso, che avrebbe reso meccanicistiche[57] le procedure nella misura in cui il privato si limitava a indicare il corrispettivo in denaro, “la sola cosa rimasta in bianco dello schema adottato dalla pubblica amministrazione”[58].

Il D. Lgs. n. 163/2006 confermò questa tendenza alla iper-regolamentazione, ma fu accusato di rigidità e di sostanziale inidoneità a combattere il fenomeno corruttivo; inoltre, andò consolidandosi la consapevolezza del fatto che a poco serve limitare la discrezionalità dei funzionari se il quadro normativo è denso e incerto, aperto a diverse possibili interpretazioni, nell’ambito di una complessità che rende difficile distinguere condotte in buona fede o meno, con il rischio di eccessiva pressione sugli operatori pubblici e conseguente paralisi dell’azione amministrativa[59].

Il D. Lgs. n. 50/2016 avrebbe dovuto risolvere questo problema di “bulimia e incertezza legislativa, ponendo ex ante le regole certe (perché prodotte dell’autorità di regolazione e validate dal Consiglio di Stato), tramite linee guida prontamente aggiornate e aggiornabili a fronte di eventuali modifiche legislative sopravvenute”[60]. Nonostante gli aspetti indubbiamente positivi, quali l’istituzione della Banca Dati Nazionale dei Contratti pubblici, ne è risultato un complesso normativo in cui la parola “corruzione” era reiterata numerose volte, senza trascurare l’impressione generalizzata di una certa sfiducia nei confronti delle stazioni appaltanti e l’eccessiva preoccupazione di evitare reati piuttosto che garantire il buon funzionamento del mercato dei contratti pubblici[61].

D’altronde, lo stesso legislatore sembra aver manifestato insofferenza nei confronti del soffocamento dell’iniziativa dei dipendenti preposti all’aggiudicazione delle gare, come dimostra l’imporsi di modelli alternativi, quali il “contromodello Genova”[62], il decreto “sblocca-cantieri”[63] e, da ultimo, l’avvento del PNRR, in cui si avverte l’esigenza di realizzare le opere pubbliche nel minor tempo possibile al fine di rendicontare in sede europea, come dimostra – prima ancora dell’entrata in vigore del nuovo codice dei contratti – l’impostazione del D.L. n. 77/2021, recante “un binario parallelo per gli investimenti che riguardano il Pnrr”[64].

L’affresco storico rapidamente tratteggiato dimostra come l’eccessiva enfatizzazione della “lotta alla discrezionalità”, nel settore dei contratti pubblici così come in qualsiasi altro ambito dell’azione amministrativa, possa condurre a conseguenze paradossali, pervenendo a una visione razionalistica e meccanicistica della pubblica amministrazione che, con l’eliminazione dell’elemento personale come fattore di insicurezza, riesce a concepirsi in modo ideale. Si tratta dell’estremizzazione di quell’impostazione di base secondo cui “il civil servant è intrinsecamente visto come un potenziale corrotto, a cui va messa una stretta briglia con finalità contenitive e preventive”[65].

Tuttavia, tale filosofia di fondo appare controproducente, in quanto mortifica l’iniziativa del pubblico dipendente, in netto contrasto con il principio della fiducia che, come anticipato, è oggi desumibile da una norma cogente di legge, senza trascurare l’ulteriore conseguenza negativa dell’incremento dei costi di transazione e controllo (maggiori tempi per le decisioni, rigidità operative, più personale coinvolto)[66].

D’altronde, è lo stesso legislatore a fare riferimento all’iniziativa e autonomia decisionale dei funzionari pubblici (art. 2, c. 2, D. Lgs. n. 36/2023) e la Relazione di accompagnamento afferma che “il nuovo codice vuole dare, sin dalle sue disposizioni di principio, il segnale di un cambiamento profondo, che – fermo restando ovviamente il perseguimento convinto di ogni forma di irregolarità – miri a valorizzare lo spirito di iniziativa e la discrezionalità degli amministratori pubblici”[67].

La discrezionalità, infatti, è il nucleo essenziale del potere amministrativo, implicante la ponderazione di interessi primari e secondari, pubblici e privati, che è il proprium della funzione amministrativa. Un sistema anticorruzione che voglia dirsi rivisitato nelle fondamenta e adeguato alla nuova visione legislativa, più che irreggimentare i procedimenti e i processi sino a soffocare qualsiasi spiraglio di discrezionalità, dovrebbe focalizzarsi sull’adeguatezza della motivazione, presupposto, fondamento, baricentro ed essenza stessa del legittimo esercizio del potere amministrativo nonché presidio di legalità sostanziale insostituibile[68].

5. Conclusioni.

Sulla base di quanto argomentato, si ritiene di poter affermare che solo la motivazione, a prescindere dal singolo e atomistico adempimento procedimentale, può dare evidenza delle scelte compiute e delle ragioni di fatto e di diritto che le sorreggono, così consentendo la comprensibilità del provvedimento, il sindacato giurisdizionale e il controllo diffuso da parte della collettività[69]. Tale rivoluzione culturale condurrebbe a superare quello che autorevole dottrina definisce “declino della decisione motivata” e che incide negativamente sulla legittimazione dei pubblici poteri (che un sistema anticorruzione virtuoso dovrebbe aiutare a recuperare, più che ad annullare del tutto)[70].

[1] Nonostante il lavoro sia frutto della riflessione congiunta dei due autori, i paragrafi 1, 2, 4 e 5 sono da attribuirsi ad Antonino Ripepi, mentre il par. 3 è stato realizzato da Stefano Maria Vilasi.

[2] Procuratore dello Stato presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Reggio Calabria, già Segretario comunale.

[3] Dottorando in “Global Governance and Sustainable Development” presso “Università Dante Alighieri di Reggio Calabria”

[4] I. Calvino, Le città invisibili, Einaudi, 1971.

[5] In questi termini P. Davigo – G. Mannozzi, La corruzione in Italia. Percezione sociale e controllo penale, Laterza, 2007, pp. 3 ss.

[6] P. Davigo – G. Mannozzi, op. cit.; C.A. Strazzeri – M. Rupcic, ISO 37001 e i Sistemi di gestione anti-corruzione, Wolters Kluwer, 2016; M. Gnaldi – B. Ponti, Misurare la corruzione oggi, FrancoAngeli, 2018; F. Monteduro – S. Brunelli – A. Buratti, La corruzione. Definizione, misurazione e impatti economici, Formez PA, Vol. I, 2013.

[7] ANAC, PNA 2013, disponibile in http://comunicazione.formez.it/sites/all/files/pna_sett_2013.pdf, p. 13.

[8] All’analisi economica della corruzione è dedicato un intero Capitolo di A. Balestrino, E. Galli, L. Spataro, Scienza delle finanze, UTET, 2015, pp. 177 ss.

[9] Peraltro non del tutto condivisibile, come si dirà.

[10] La corruzione in Italia. Per una politica di prevenzione. Rapporto della Commissione per lo studio e l’elaborazione di proposte in tema di trasparenza e prevenzione della corruzione nella pubblica amministrazione, 2012, disponibile in https://www1.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/sezioni/sala_stampa/documenti/anticorruzione/2012_10_23_rapporto_corruzione_in_Italia.html_8783072.html, p. 20.

[11] F. Fornari, Sociologia della corruzione: aspetti epistemologici e teorici, in Rivista quadrimestrale di scienze storiche e sociali, n. 3/2015, p. 72.

[12] V. gli ampi riferimenti contenuti in M. D’Alberti, Corruzione, Treccani, 2020, pp. 3 ss.

[13] Voce Trasformismo, Dizionario di Storia Treccani online, disponibile in https://www.treccani.it/enciclopedia/trasformismo_%28Dizionario-di-Storia%29/

[14] E. Ragionieri, Politica e amministrazione nella storia dell’Italia unita, Bari, 1967, pp. 3 ss.

[15] In cui la corruzione fu elevata “ad arte di governo” secondo C. A. Brioschi, La corruzione. Una storia culturale, Guanda, 2018, p. 131.

[16] Sino a divenire “dato strutturale della nostra storia unitaria”: I. Sales – S. Melorio, Storia dell’Italia corrotta, Rubbettino, 2019, p. 15 ss.

[17] G. Melis, La lunga storia della corruzione italiana, Lezione di sabato 25 febbraio 2017 alla Facoltà Giurisprudenza, Università di Roma “La Sapienza” – Master Università-ANAC, disponibile in eticapa.it, p. 6.

[18] M. D’Alberti, Introduzione, in Id. (a cura di), Corruzione e pubblica amministrazione, Jovene, 2017, pp. 7-12.

[19] G. Sabbatucci – V. Vidotto, Il mondo contemporaneo, Laterza, 2019, pp. 601 ss.

[20] E. Carloni, op. cit., pp. 21-22.

[21] Scrive Battini che “la disciplina per il contrasto della corruzione, intesa in senso assai lato, ha impresso al sistema amministrativo una curvatura penalistica, in cui una penetrante regolazione di prevenzione del fenomeno, inevitabilmente imperniata sul sospetto di potenziali attività illecite della burocrazia, è venuta a saldarsi con un inasprimento della disciplina repressiva della corruzione” (S. Battini, La riforma deformata della Costituzione amministrativa italiana: una retrospettiva a vent’anni dal d. lgs. n. 165 del 2001, in Istituzioni del federalismo, n. 2/2021, p. 319).

[22] Ex plurimis, si v. La corruzione in Italia. Per una politica di prevenzione cit., pp. 7 ss.

[23] Cui è dedicata la recentissima monografia di E. Carloni, L’anticorruzione cit.

[24] Id., voce Corruzione (prevenzione della), in Enciclopedia del Diritto, I Tematici, Funzioni amministrative, Giuffré, 2022, p. 321.

[25] F. Merloni – R. Cavallo Perin, Al servizio della Nazione. Etica e statuto dei funzionari pubblici, FrancoAngeli, 2009; F. Merloni – L. Vandelli, La corruzione amministrativa: cause, prevenzione e rimedi, Passigli, 2010.

[26] M. Galdi, La corruzione come disvalore costituzionale, in federalismi.it, n. 20/2019, p. 10.

[27] R. Cavallo Perin, L’etica pubblica come contenuto di un diritto degli amministrati alla correttezza dei funzionari, F. Merloni – R. Cavallo Perin, Al servizio della Nazione cit., p. 150.

[28] Si trattava dell’auspicio espresso da B.G. Mattarella, Le regole dell’onestà. Etica, politica, amministrazione, Il Mulino, 2007.

[29] Come evidenziato, in ambito europeo, nel Discorso della presidente Ursula von der Leyen sullo stato dell’Unione 2022, 14 settembre 2022, in cui si evidenzia che la corruzione pone in discussione gli interessi pubblici fondamentali e i diritti umani, nonché la legittimazione delle istituzioni democratiche, con rischio di cattura delle élite politiche e burocratiche non solo da parte di agenti stranieri, bensì anche di agenti stranieri che tentano di influenzare il tessuto politico dell’UE. D’altronde, già nel 2021 si era registrato un Progetto di Raccomandazione del Parlamento europeo che mira a rafforzare la strategia europea e richiede alla Commissione di “formulare una strategia anticorruzione completa, globale, coerente ed efficace”, “facendo tesoro degli strumenti anticorruzione esistenti e delle buone pratiche presenti nel pacchetto di strumenti dell’UE, individuando le lacune, incrementando gli stanziamenti” e conferendo “priorità alla prevenzione nella lotta alla corruzione mettendo in atto misure, politiche e pratiche preventive, comprese campagne di sensibilizzazione e formazione nei settori pubblico e privato”.

[30] F. Merloni – A. Pirni, Etica per le istituzioni. Un lessico, Donzelli, 2020.

[31] Rapporto di valutazione sull’Italia adottato dal GRECO, 27 maggio 2011, Greco Eval RC-I/II Rep (2011) 1E, disponibile in https://rm.coe.int/16806c6952, p. 24.

[32] Come acutamente notato dalla dottrina che discorre di “professionismo dell’anticorruzione”: R. Borsari, La corruzione pubblica. Ragioni per un cambiamento della prospettiva penale, Giappichelli, 2020, p. 2.

[33] In materia contabile, si pensi all’art. 7 L. n. 196/2009; in riferimento alla gestione del personale, si abbia riguardo all’art. 6 D. Lgs. n. 165/2001.

[34] Particolarmente sorvegliata in sede di mappatura dei processi a rischio e di redazione dei PTPCT.

[35] Il discorso merita un approfondimento. La Convenzione delle Nazioni Unite del 2003 vincolava gli Stati a prevedere “autorità specializzate”, cioè “uno o più organi o persone specializzate nella lotta alla corruzione mediante attività di individuazione e repressione”, delle quali garantire “l’indipendenza necessaria, conformemente ai principi fondamentali del sistema giuridico dello Stato Parte, per potere esercitare le proprie funzioni efficacemente e al riparo da ogni indebita influenza” (art. 36). L’Italia ha adempiuto istituendo un’Autorità dedicata a compiti di prevenzione, con un ruolo che spazia dall’implementazione delle politiche anticorruzione al rafforzamento della cultura della legalità e il monitoraggio sugli adempimenti con l’esercizio di poteri sanzionatori (multi-purpose anti-corruption agencies, modello in cui rientrano anche l’Autorità francese, la National Integrity Agency in Romania e l’Office of Government Ethics statunitense), sebbene fossero astrattamente possibili anche multipurpose agencies (con poteri investigativi) e law enforcement agencies (con poteri repressivi; E. Carloni, op. cit., pp. 92-93). Tuttavia, non vi era alcun vincolo sovranazionale circa l’identificazione tra l’Autorità indipendente preposta all’anticorruzione e quella operante nel settore dei contratti pubblici; anzi, tale scelta, pressoché isolata nel panorama europeo, è stata criticata dalla dottrina (E. Carloni, L’anticorruzione e la trasparenza nel sistema di procurement pubblico: tendenze e prospettive ai tempi del PNRR, in Dir. Amm., n. 3/2022).

[36] Non possiamo tacere di quell’evoluzione storica per cui, a breve distanza di tempo dallo scandalo di “Tangentopoli”, già la “Legge Merloni” del 1994 intervenne a imporre un impianto maggiormente orientato alla soluzione della gara e al contenimento di margini di discrezionalità nella scelta del contraente: le regole pubblicistiche “apparivano più congeniali a combattere la piaga delle collusioni occulte tra gli uffici delle amministrazioni, i fornitori, gli appaltatori e i somministratori” (S. Fantini – H. Simonetti, Le basi del diritto dei contratti pubblici, Giuffré, 2019, p. 6).

[37] L. Oliveri, Anticorruzione ancora da rodare, 2017, in https://luigioliveri.blogspot.com/2017/01/anticorruzione-ancora-da-rodare.html

[38] Ibidem.

[39] A. Battaglia – S. Battini – A. Blasini – V. Bontempi – M. P. Chiti – F. Decarolis – S. Mento – A. Pincini – A. Pirri Valentini – G. Sabato, Burocrazia difensiva: cause, indicatori e rimedi, in https://images.irpa.eu/wp-content/uploads/2021/03/Burocrazia-difensiva_Battini.pdf, p. 1.

[40] Ivi, p. 2.

[41] M. Krienke, Trasparenza, integrità e good governance. La necessaria dimensione etica nella pubblica amministrazione oggi, in P. Previtali – R. Procaccini – A. Zatti (a cura di), Trasparenza e anticorruzione: la nuova frontiera del manager pubblico, Pavia University Press, 2016, p. 93.

[42] Cfr. V. Ottaviano, op.cit., 308 ss.; voce Merito (Diritto amministrativo), Torino, Utet, 1968, 575 ss.

[43] G. Barone, voce Discrezionalità (Diritto amministrativo), in Enc. giur., XIII, Roma,  Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1989,1.

[44] S. Lombardi, op. cit., 414.

[45] C. Mortati, op.cit., 1099.

[46] G. Guarino, op.cit., 192 e 195. Il potere- qualunque potere: legislativo, politico, negoziale-rimane tale anche se lo spazio da colmare attraverso l’autonoma formulazione del precetto sia minimo: si pensi alla scelta da compiere di fronte a due opzioni di un’unica alternativa. L’autore, inoltre, avverte che, << più il potere è libero nel suo contenuto e con riguardo ad ogni possibile aspetto, più esso è vincolato nel procedimento. Il potere tra tutti più libero, è quello di revisione costituzionale: corrispondentemente la procedura per la modifica della Costituzione è aggravata rispetto al procedimento amministrativo ordinario […].

Anche a livello amministrativo, malgrado il rigore del principio di specificità, vi sono poteri che, per necessità di cose, devono avere un maggior grado di indeterminatezza. Il sistema reagisce a questa necessità adottando lo stesso metodo di cui già si è fatto cenno a proposito dei poteri legislativi: se l’oggetto non tollera, per la natura del potere da esercitare, una più precisa definizione, si accrescono i vincoli procedimentali>> (141-144).

[47] L. Carlassare, in Enc. giur., VIII, Roma Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1990,5, che, a  proposito della valenza democratica del principio di legalità nella sua portata generale, osserva che <<in un sistema democratico dove le scelte non possono che competere agli organi rappresentativi, la legalità (sostanziale) va valutata anche come strumento fondamentale per rendere democratica l’amministrazione, affidata ad una burocrazia priva di legittimazione propria>>.

[48] V. Gasparini Casari, op.cit.,33-34. L’autore sostiene che il principio di legalità, proprio in relazione al principio democratico, debba essere inteso nel senso più ampio e persuasivo. A questo riguardo afferma che << i poteri d’imperio, di cui può disporre l’amministrazione, sussistono solo in quanto sono previsti dalla legge e devono essere esercitati, non solo nel rispetto della legge, ma anche in conformità a quanto da essa stabilito>>.

[49] F.C. Scoca ivi, p.21-22; R. Chieppa, M. Lunardelli, Attività discrezionale e attività vincolata della Pubblica amministrazione , in Altalex 2017.

[50] M.S. Giannini, Il potere discrezionale della P.A. MI, Giuffré, 1939, p.40.

[51] M.S. Giannini, ivi p.13.

[52] F. Caringella, I nuovissimi principi del diritto amministrativo, cit.,104.

[53] E. Casetta, Compendio di diritto amministrativo, cit., 362.

[54] Sia consentito il rinvio ad A. Ripepi, Principio della fiducia ed estensione del sindacato giurisdizionale del giudice amministrativo, in Giur. it., 4/2024.

[55] D. Senzani, Misure di prevenzione della corruzione, discrezionalità e prassi amministrativa, in F. Cerioni – V. Sarcone, Legislazione anticorruzione e responsabilità nella Pubblica Amministrazione, Giuffré, 2019, pp. 41 ss.

[56] Sui rapporti tra anticorruzione e contratti pubblici v., tra tutti, E. Carloni, L’anticorruzione cit., pp. 231 ss.

[57] M.A. Sandulli – A. Cancrini, I contratti pubblici, in F. Merloni – A. Vandelli (a cura di), La corruzione amministrativa cit., pp. 441-443.

[58] S. Fantini – H. Simonetti, Le basi del diritto dei contratti pubblici cit., p. 23.

[59] S. Torricelli, Disciplina degli appalti e strumenti di lotta alla “corruzione”, in Diritto pubblico, n. 3/2018, pp. 953-977; M. Cafagno, Contratti pubblici, responsabilità amministrativa e “burocrazia difensiva”, in Il diritto dell’economia, n. 3/2018, p. 33.

[60] E. Carloni, L’anticorruzione cit., p. 240.

[61] M. Delsignore – M. Ramajoli, La prevenzione della corruzione e l’illusione di un’amministrazione senza macchina, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, n. 1-2019, pp. 61 ss.

[62] Caratterizzato dai poteri attribuiti al Commissario straordinario, il quale poteva operare “in deroga a ogni disposizione di legge extrapenale, fatto salvo il rispetto dei vincoli inderogabili derivanti dall’appartenenza all’Unione Europea” (art. 1, c. 5, D.L. n. 109/2018).

[63] D.L. n. 32/2019, recante numerose misure di sospensione di efficacia e di deroga.

[64] P. Lazzara, Introduzione al sistema dei contratti della pubblica amministrazione, in Id. (a cura di), Il diritto dei contratti pubblici. Temi e questioni, Aracne, 2021, p. 22.

[65] A. Zatti, Un quadro in tumultuoso divenire, in P. Previtali – R. Procaccini – A. Zatti (a cura di), Trasparenza e anticorruzione: la nuova frontiera del manager pubblico cit., p. 12.

[66] Ibidem.

[67] Relazione agli articoli e agli allegati del Codice cit., p. 15.

[68] Corte cost., ord. 26 maggio 2015, n. 92.

[69] B. Marchetti, Il principio di motivazione, in M. Renna – F. Saitta (a cura di), Studi sui principi del diritto amministrativo, Giuffré, 2011, pp. 521-522, ove l’Autrice evidenzia l’evoluzione dalla concezione garantistica per il privato allo strumento di accountability delle decisioni delle amministrazioni internazionali con ampi riferimenti di diritto comparato.

[70] M. Ramajoli, Il declino della decisione motivata, in L. Giani – M. Immordino – F. Manganaro, Temi e questioni di diritto amministrativo, Editoriale Scientifica, 2019, pp. 168-169.

ratioiuris.it

Storia della contrattazione nel pubblico impiego

Breve (brevissima) storia della contrattazione nel pubblico impiego

(Ripubblicazione) Qualche tempo fa, in occasione della presentazione del Master Mapa dell’Università di Milano, ho fatto un dialogo con il prof. Renato Ruffini che ripercorre la storia della contrattazione del pubblico impiego degli ultimi 25 anni. Renato Ruffini: Nell’ambio dell’attività del Master Mapa, incontriamo oggi Antonio Naddeo, componente del Comitato Ordinatore del Master MAPA, che…
Antonio Naddeo

(Ripubblicazione)
Palazzo Vidoni – sede del Dipartimento della Funzione Pubblica

Qualche tempo fa, in occasione della presentazione del Master Mapa dell’Università di Milano, ho fatto un dialogo con il prof. Renato Ruffini che ripercorre la storia della contrattazione del pubblico impiego degli ultimi 25 anni.

    Renato Ruffini: Nell’ambio dell’attività del Master Mapa, incontriamo oggi Antonio Naddeo, componente del Comitato Ordinatore del Master MAPA, che è l’organo di indirizzo del master stesso. Antonio Naddeo, è stato ed è un attore protagonista del pubblico impiego: attualmente è Presidente dell’Aran. Dal 1995, prima come funzionario Aran, poi come capo dipartimento della Funzione Pubblica ha partecipato, collaborando con vari Ministri e molti colleghi, alla regolazione del pubblico impiego, sia attraverso i contratti collettivi di lavoro sia attraverso le diverse riforme, grandi e piccole, che si sono succedute dal 1998 ad oggi.

Naddeo Un saluto a tutti. Eh sì, sono stato testimone più o meno dal ’95, anno del mio arrivo in ARAN, di tante cose che sono accadute nel pubblico impiego. Allora ero un giovane funzionario, venivo dalla Ragioneria Generale, mi occupavo soprattutto di conti (come si diceva allora) in una Pa invasa da giuristi.

Il mio compito era quello di rilevare i costi dei contratti di lavoro e scrivere la relazione tecnica che li accompagnava. Quella è stata un’epoca ricca di riforme. Nel 1993 fu fatta una legge che “privatizzò” il pubblico impiego: in pratica l’intento della legge era quello di avere più o meno le stesse regole del lavoro privato per il lavoro pubblico.

Perciò fu istituita l’Aran che doveva essere un’agenzia autonoma per la contrattazione – anche se in realtà la sua autonomia si sviluppa su preciso mandato politico – che aveva ed ha il ruolo di fare i contratti di lavoro “privatizzati”.

Proprio in quel periodo, tra il 1995 e il 1996, furono firmati i primi contratti collettivi nazionali di lavoro che introdussero molte importanti novità e che sono ancora la base dell’attuale regolazione. Quel periodo fu veramente fondativo. Il presidente dell’ARAN era il prof. Tiziano Treu, che poi diventò ministro del lavoro e fu sostituito dal compianto prof. Carlo Dell’Aringa.

Allora i contratti collettivi erano molto di più di quelli attuali, poiché erano fatti per ogni singolo settore dell’amministrazione pubblica: c’era un contratto collettivo dei ministeri, un contratto collettivo degli enti pubblici non economici, uno per l’università, enti locali ecc . Avevano una durata quadriennale per la parte normativa e biennale per quella economica.

Con la riforma Brunetta del 2009 i comparti di contrattazione furono ridotti a quattro, con conseguente accorpamenti dei precedenti contratti. Attualmente ad esempio è in corso la trattativa per il contratto delle cosiddette Funzioni Centrali (al momento dell’intervista il contratto non era ancora stato sottoscritto) e dentro questo contratto ci sono ministeri, enti pubblici non economici e agenzie fiscali. Però occorre ammettere che questa operazione di accorpamento dei comparti non è ancora riuscita benissimo, nel senso che sono stati fatti contratti di lavoro unici, per esempio per le funzioni centrali, ma all’interno del contratto stesso ci sono ancora le c.d. “ sezioni “ che afferiscono ai vecchi comparti di contrattazione.

Pongo l’accento sui comparti, perché molti attribuiscono al contratto collettivo nazionale lavoro un’importanza che va oltre quella che deve effettivamente avere: un CCNL deve stabilire le regole del rapporto di lavoro da un punto di vista normativo, per esempio i giorni di ferie, i diritti e i doveri che hanno i lavoratori nei confronti del datore di lavoro e viceversa, il trattamento economico. In buona sostanza un contratto dovrebbe essere più semplice e non essere una specie di legge dove dentro ci finisce un po’ di tutto. Poi in molti casi i contratti anche per comparti diversi si assomigliano. Forse occorrerebbe cominciare a pensare a contratti che facciano la regolazione, piuttosto che per comparti, per tipologia professionale. Ma il tema al momento è più teorico che pratico.

Però a noi italiani piacciono le complicazioni, e ogni comparto può vantare le proprie specificità, dichiarazione questa che puntualmente viene fatta ad ogni inizio di trattativa, affermando che quel tale comparto ha una sua specificità e unicità. Certo, ognuno ha una sua specificità, la scuola è sicuramente diversa da un ministero, ma forse non è tanto l’attività del datore di lavoro che connota le specificità da regolare quanto la tipologia di lavoro e la professionalità.

    Ruffini: La stagione contrattuale fondativa del 1995 basata sulla riforma del rapporto di lavoro pubblico del 1992, ricordiamo che nacque sotto la spinta della crisi economica, affrontata anche con mezzi estremi dall’allora governo Amato.

Naddeo: Sì, c’era una profonda crisi economica e i conti dello Stato rischiavano di non reggere. Il governo fece una manovra finanziaria come si disse allora “lacrime e sangue”. Fu una manovra che tutti si ricordano e il pubblico impiego era sul banco degli imputati come uno dei fattori di crescita della spesa pubblica non più controllabile. Le riforme di quegli anni sono state molto importanti soprattutto per le dinamiche della contrattazione: una scelta fu quella di cercare di liberare, per quanto possibile, i processi della contrattazione del lavoro dalle dinamiche politiche. Per questo, come detto in precedenza, fu istituita l’Aran il cui compito era principalmente quello di tenere sotto controllo (rispetto all’inflazione) il costo del lavoro pubblico. A questo compito si associò poi anche quello di innovare i contratti di lavoro rendendoli più coerenti con quelli del lavoro privato (allora era questa l’idea dominante). In questo senso i contratti di allora erano collegati all’inflazione programmata e alla crescita economica.

Poi arrivò il Ministro Bassanini, che fece dei correttivi, in particolare cercò di aggiustare il tiro sul decreto legislativo 29 del 93 dando maggiore forza agli aspetti negoziali, cioè alla contrattazione collettiva soprattutto di secondo livello, rispetto alla fonte di legge.

    Ruffini: In questo periodo ci fu la c.d seconda riforma del pubblico impiego, siamo nel 1998/99….

Naddeo: in quel periodo (1996) passai alla Funzione Pubblica con il ministro Bassanini. Arrivai a funzione pubblica e per mia grande fortuna fui assegnato alla direzione delle relazioni sindacali. Direttore di quell’ufficio era il prof. Massimo D’Antona.

    Ruffini: Ricordiamo che D’Antona era un giurista del lavoro di alto livello e fu ucciso dalle Brigate Rosse.

Naddeo: D’Antona è stato per me un grande maestro, come lo è stato il ministro Bassanini, con cui lavoravo a stretto contatto pur essendo un funzionario. Bassanini guardava poco ai ruoli gerarchici delle persone. Se ti riteneva valido ti coinvolgeva. La sua squadra era una specie di dream team: l’avv. Nino Freni al gabinetto, il giovane Patroni Griffi al legislativo, il prof. D’antona alle Relazioni sindacali, il giovanissimo Alberto Stancanelli capo della segreteria tecnica. Insomma c’era solo da imparare!

In quel periodo una delle idee di Bassanini, ma soprattutto di D’Antona, era quella di fare un passaggio in più rispetto a quello che era accaduto nella prima tornata contrattuale (quella del 95/96) e cioè dare un ruolo più rilevante alla contrattazione decentrata, chiamandola contrattazione integrativa, cioè la contrattazione di secondo livello. L’idea del professor D’Antona era: facciamo un contratto collettivo nazionale di lavoro snello, dove nella parte retributiva scriviamo quant’è il trattamento economico fondamentale, poi rimandiamo tutta la parte accessoria della produttività e delle indennità alla contrattazione integrativa, perché la contrattazione integrativa doveva essere secondo quell’idea un momento rilevante per decidere le politiche gestionali del personale all’interno di ogni singola azienda /ente. Perché è vero che abbiamo dei comparti che fanno riferimento a settori molto grandi (ministeri, università, enti locali), però poi ogni singola amministrazione ha una sua politica gestionale del personale: l’Università di Milano ce l’ha sicuramente diversa da quella di Napoli, ha esigenze diverse, ha in qualche modo la necessità di sviluppare una “propria” politica del personale. Il “clou” della politica del personale era all’interno della contrattazione integrativa. Perciò si diede ampio margine di discrezionalità, nei limiti dei principi stabiliti dal contratto collettivo nazionale di lavoro (come devono essere le risorse, quante risorse destinare ai diversi fini).

In quel passaggio alla fine degli anni 90 ci furono contratti collettivi nazionali molto importanti. Per esempio l’ordinamento professionale nacque allora con i ccnl del 1999 ed è ancora vigente, quello che stiamo cercando di modificare con grande difficoltà nell’attuale tornata contrattuale (ora modificato con il nuovo CCNL).

È uno stralcio di una lunga chiacchierata sugli ultimi 25 anni del pubblico impiego (in questo post i primi 10 anni).

Colgo l’occasione per una riflessione personale: la fortuna per la mia crescita professionale è stata quella di incontrare grandi professionisti del diritto, della contrattazione, direttori e funzionari, che hanno contribuito a formarmi e a farmi crescere professionalmente.
antonionaddeo.it

Ribasso indiretto e costi della manodopera

ribassocostIl ribasso indiretto e i costi della manodopera, nella sentenza del Tar.

Sulle cause di esclusione e sul sotto soglia si segnala il testo di Eugenio Piscino, Le cause di esclusione e gli affidamenti sotto soglia nel codice dei contratti pubblici, (seconda edizione, marzo 2025) con prefazione del Consigliere della Corte dei conti, Tiziano Tessaro. L'indice è consultabile qui e il testo può essere acquistato qui.

La notizia indicata, ulteriori note e documenti sull'argomento sono disponibili, per i soli Associati, nel menù: Gestione dell'ente-Codice dei contratti pubblici

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Obbligo di verifica del CCNL

equivalenzObbligo di verifica dell’equivalenza del CCNL, nella sentenza del Tar.

Sulle cause di esclusione e sul sotto soglia si segnala il testo di Eugenio Piscino, Le cause di esclusione e gli affidamenti sotto soglia nel codice dei contratti pubblici, (seconda edizione, marzo 2025) con prefazione del Consigliere della Corte dei conti, Tiziano Tessaro. L'indice è consultabile qui e il testo può essere acquistato qui.

La notizia indicata, ulteriori note e documenti sull'argomento sono disponibili, per i soli Associati, nel menù: Gestione dell'ente-Codice dei contratti pubblici

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

bannercorsi

campagna adesione2024

ASFEL

Supporto e Formazione PA

Via Lepanto, 95 - 80045 Pompei (NA)

C.F. 90080340632 - P.I. 08339801212

. E-mail: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.

. Pec: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Top
Questo sito utilizza cookie di profilazione propri e di terzi per inviarti pubblicità in linea con le tue preferenze. Utilizza anche cookie analytics propri e di terzi al fine di effettuare statistiche e monitoraggi sull'utilizzo del sito. Continuando a consultare ASFEL.it o chiudendo questo popup, acconsenti all'utilizzo dei nostri cookie Dettagli…